Installazioni e Performance per far emergere le creatività nascoste
“Per Non Morire /Far Emergere” mostra d’arte contemporanea, organizzata in collaborazione con Antonio De Martino nell’ambito del Progetto Carmine per l’Arte, sostenuto dall’Assessorato al Centro Storico e la Circoscrizione Centro del Comune di Brescia.
Monica Carrera, Francesca Damiano e Luisa Littarru presentano una serie di opere realizzate negli ultimi anni: sette anni di silenzio, dopo l’ultima mostra a Milano presso la O’Artoteca durante i quali hanno lavorato singolarmente nel proprio privato. Matteo Cassiaghi, fashion designer, presenta invece per la prima volta le sue opere scultoree. L’allestimento e le luci sono a cura di Valentina Domeneghini, fotografa.
Due le sedi della mostra: presso la Vetrina dell’Atelier degli Artisti in Contrada del Carmine, e presso STarC_studio d’arte contemporanea di Roberta Sisti in via delle Battaglie.
In occasione dell’inaugurazione, in via Ventura Fenarolo, Silvio Righini, violoncellista docente presso la Civica Scuola di Milano e Emiliano Milanesi, chitarrista dei Seddy Mellory presenteranno una loro personale interpretazione delle Suite per violoncello di J.S. Bach.
TESTI CRITICI di Alessandra De Medici:
Per non morire, va detto subito, vale tanto per il DENTRO quanto per il FUORI. Se si muore DENTRO, fuori rimane solo una facciata senza sostanza; quando invece è FUORI che si muore la vita si ripiega in una solitudine alla cui estremità c’è la follia. In questa mostra il DENTRO e il FUORI, con convinzione, rivendicano lo stesso diritto di cittadinanza, proprio perchè l’aspirazione è alla completezza della realizzazione di sè. Avete presente il simbolo del Tao? Il cerchio all’interno del quale, separate da una linea sinuosa, ma inesorabilmente intersecate, si snodano due onde montanti l’una di colore nero e l’altra di colore bianco, ciascuna delle quali, a sua volta, ospita al proprio interno, nella zona più espansa, la nera un disco bianco, la bianca un disco nero? Quattro aree dunque, come i quattro protagonisti della nostra mostra, e ciascuna di queste aree declina la propria natura sia in quanto se stessa sia in relazione alle altre e potremmo dire che anche alle altre partecipa per il fatto di essere all’interno dell’ispirata struttura. Anche i quattro tipi di linea alla base degli esagrammi dell’I KING ci portano nella stessa direzione… (linea Yang linea yin, linea vecchio yang pronta a trasformarsi in yin linea vecchio yin pronta a trasformarsi in yang). Perchè il DENTRO è uno dei molti modi di dire lo yin e il FUORI uno dei molti di dire lo yang, ma la saggezza antica non si appaga di tale opposizione e la trasforma in complementarietà nel momento in cui fissa lo yin come l’onda nera che racchiude il disco bianco e lo yang come l’onda bianca che racchiude il disco nero. Per non morire? Ed è come se Franci Lu Monica e Matteo, insieme, con i loro lavori, naturalmente -così le cose accadono davvero- si siano ritrovati a comporre una sorta di simbolo del Tao interpretando le energie che lo costituiscono: Franci è l’onda nera ( l’interno del DENTRO) e Monica il disco bianco circondato dall’onda nera (l’esterno del Dentro), Matteo è l’onda bianca (l’esterno del Fuori) e Lu il disco nero circondato dall’onda bianca (l’interno del Fuori); ciascuno apporta al lavoro comune un suo specifico contributo insostituibile ma certamente l’opportunità della mostra salda ora come in un sigillo queste quattro realtà espressive dando vita a un mondo nuovo, d’impensata ricchezza e profondità, addentrandoci nel quale progressivamente vediamo sfumare l’idea iniziale -per non morire- per lasciare spazio a un altro tema, altrettanto autentico: COME VIVERE, diventando magari il Tao di se stessi.
MONICA CARRERA / Il fuori del dentro
Un’immagine di nettezza indiscutibile, forte e diretta scaturisce dai lavori di Monica, così imperativa e fin dall’inizio organizzata da far correre il pericolo, a chi guarda, di non vedere o di sottovalutare dei dettagli che, probabilmente, proprio dettagli non sono, al punto da poter intonare quasi un controcanto rispetto a quell’immagine così vigorosa, senza scalfirla, ma suggerendo quasi, sottovoce, un suo ribaltamento. Il corpo, soprattutto, e il libro dominano la scena – il corpo onnipresente e il libro raddoppiato in “2010-2012”: il libro ha copertine nere e sul lino bianco si riveste subito di un’aura liturgica, il corpo che Monica assume non ha nulla in comune con la visione idealizzata della tradizione classica ma si apparenta con le danze macabre medievali -con gli scheletri ridotti qui a spine dorsali- o con certe immagini devozionali legate al martirio dei Santi in cui il martire ostende le parti del corpo torturate – in “Esausta”-, il tutto però “normalizzato” e dunque sdrammatizzato rispetto all’orrore antico dall’impiego di oggetti domestici o casalinghi (i bastoni da tenda tagliati a rocchetti, o una scopa vera e propria con tanto di papillon, l’ometto per gli abiti le forcine per capelli), di frutti rinsecchiti, manipolati montati colorati e travestiti -oppure esposti quasi al grado zero (“le mie sette cervicali” ma anche uno dei libri di “2010-2012”)- con uno spirito lievemente ludico e da trasognata clownerie, in cui femminilità e femminile (Monica s’interroga sui confini) nutrono il lato sensibile ed esistenziale. Ricordiamo che il corpo e il Libro erano gli strumenti principe dell’ascesi mistica: sul corpo si consumava la cruda mortificazione dei cilici, dei digiuni, delle veglie, sopprimendo nel dolore e nella fatica i bisogni corporali e le inclinazioni sensuali. Il corpo veniva sottoposto a una disciplina inflessibile che nel corpo lasciava segni indelebili riplasmando anche la psiche. Il Libro era la Parola, la Voce di Dio che accompagnava quasi ogni istante della vita monastica e nella quale erano contenute tutte le risposte, il leggerla pregarla e cantarla atto d’adorazione centrale. I lavori di Monica sono fatti con poco proprio perché sono le idee a essere centrali e l’asciuttezza dei suoi lavori è un veicolo ideale per le idee stesse che ne risultano potenziate: il corpo e il libro vengono ripensati in una versione agnostica ma non indifferente a impulsi e implicazioni spirituali, davvero il corpo è anche luogo di dolore od oggetto di sacrificio (“Chi bella vuol comparire…”), è nel corpo che sperimentiamo la nostra fragilità e il nostro essere in balia: la disciplina e il rigore sono ciò che ci permette di non soccombere. Il gioco, il sorriso, la delicata buffoneria consolano, strappano un sorriso quando si vorrebbe piangere, esorcizzano e riattivano le nostre energie creative, quelle che ci permettono di trasformare anche un disastro in un successo. Non a caso anche i libri di “2010-2012” sono due e quando si scopre che in realtà non sono dei libri ma dei taccuini moleskine, famosi come diari di viaggio, anche l’idea del Libro Sacro viene aggiornata: la Parola divina lascia il posto alla parola umana in una delle più umane delle sue attività: il viaggio e l’incontro con le parole dell’uomo. Asceta, clown, giramondo, innamorata delle idee: ma non è che Monica è proprio un’artista?

“2010-2012″ di Monica Carrera, opera tratta dalla mostra
MATTEO CASSIAGHI / L’esterno del fuori
Matteo fa apparire abiti: l’esterno del FUORI (il corpo). E crea con una passione totalizzante che impregna ogni gesto e operazione sartoriale, dalle cuciture alla tintura dei tessuti, alla ricerca di effetti visivi che trasformano, ad esempio, in piume di cigno dei sapienti ritagli di organza, alla scoperta di antichi schemi di ricamo da reinventare. La passione che Matteo vive creando abiti -ma davvero qualcuno potrebbe pensare che queste tre “creature-creazioni” sono solo dei vestiti?- esige da lui tutte le sue emozioni e tutti i suoi pensieri, non solo l’impegno instancabile delle sue risorse tecniche e artigiane e ogni barlume di scintilla creativa: emozioni di ogni voltaggio si riversano nella realizzazione trasformandola ora quasi in un corpo a corpo con se stessi ora in una danza, mentre la mente sorveglia e ispira soluzioni in accordo con quel tumulto o quell’armonia. Il processo creativo di Matteo richiede dunque che tutto il suo mondo venga esteriorizzato al massimo grado, trovando il suo equivalente materiale, tangibile, in ogni minuto dettaglio, fino quasi ad azzerarlo ogni volta: solo così l’abito può apparire, manifestarsi. Materializzarsi. E attraverso quell’apparizione, come una fenice, quel suo mondo rinasce rigenerato arricchito espanso… Incarnare l’esterno del FUORI richiede quantitativi e riserve di energia straordinari e una conoscenza del mondo della materia altamente evoluta. Come un maestro di cerimonie Matteo sembra conoscere e padroneggiare tutti i codici estetici e di comportamento richiesti dal regno delle forme più elevate -la corte, nella sua espressione mondana- ma anche quei segreti che nessun codice contiene perché non vanno scritti o detti ma intesi ed è a partire da quell’intendimento che si diventa Maestri di Cerimonia. L’abito “insintesi” riassume luminosamente questo retaggio: un involucro creato soprattutto dal taglio e dalla qualità del tessuto che domina il corpo reinventandolo, audace nella prospettiva che impone ma anche severo, rigoroso, austero, nell’asciuttezza nel colore. Essendo il depositario di tutto ciò che deve essere fatto e di come farlo, il Maestro di Cerimonie è anche, inevitabilmente, l’unico nella corte a diventare esperto conoscitore dell’esatto contrario: nell’abito “in profondo” ci muoviamo sempre in un regno ma è il regno della gipsy queen, la regina degli zingari, la rigida etichetta della corte lascia il posto a un altro codice non meno articolato fondato stavolta sul libero flusso, anche scomposto ma consapevole, degli istinti, l’abito libera il corpo dalle costrizioni ma pretende dal corpo espressione, e, nelle profondità del nero declinato come blu notte e terra scura, si addensa in fitte ruches o si dissolve come velo per far affiorare la pelle, diventa pelle lui stesso nel corpetto a legacci trionfo di carnalità. Per “alta cucitura” Matteo recupera rigore -limitandone però l’impiego al minimo, a delicatamente strutturare, e ammorbidendo con “piume” e squisiti e rarefatti ricami- permette al tumulto e agli eccessi di “in profondo” di placarsi conservandone la fluidità e quindi la sensitività e la vicinanza al corpo nel tessuto sottile increspato, una cascata di luce bianca. Quasi una Sposa Mistica. Forse un’anima alla ricerca di un corpo? Assumere su di sé l’esterno del Fuori, se davvero lo si fa fino in fondo, puo’ davvero portare molto lontano…

“Alta cucitura” di Matteo Cassiaghi, opera tratta dalla mostra
FRANCESCA DAMIANO / L’interno del dentro
Dai lavori di Franci si sprigiona il sentore del bosco. (Pausa per poterlo aspirare). Un sentore che calma, allarga i polmoni e predispone a stati di coscienza non lineari, in cui si possono percepire moti sottili, rumori inusuali ma anche semplicemente rimanere ipnotizzati dalle traiettorie di volo di una farfalla che, altrove, non degneremmo d’attenzione. Certo, l’abbondanza dei legni aiuta, ma, insieme ai legni -grezzi lavorati levigati le cortecce le fette di tronco, fino al quasi ancora rametto appena inciso del “bastoncino magico”- il letto di foglie che frusciano nella custodia del “Bastoncino”, il nido di “Sacrificio”, soprattutto, questi materiali e le immagini che creano ci conducono davvero nel bosco dove -e questo è il centro- palpita un segreto che il bosco custodisce.
Intorno a questo segreto, con ciò che il bosco le offre di sè, Franci costruisce il suo lavoro per rimanere il più possibile vicina a quel segreto che le restituisce la sua verità. Sulla natura di quel segreto non ci sono parole da spendere in quanto inconoscibile, a lei -che però la percepisce e ce ne restituisce i sussurri-, a noi, inevitabilmente. Siamo all’interno del DENTRO e qui i segreti non si svelano, possono solo essere accostati, se ne può intuire qualcosa dalla forma dello spazio che abitano, di volta in volta. I lavori di Franci vivono a loro agio in quella ricca e fresca penombra satura di silenzi frantumati che è quasi lo stato d’animo del bosco, tra le radici di un vecchio albero, al riparo di un cespuglio di nocciolo o dell’aereo ombrello delle felci.
Li vedi solo se cerchi. E quando li trovi prendono vita (“Cortecciato”). Ma nei lavori di Franci s’insinua anche il dolore -personale ma anche universale- che la negazione, la cancellazione del bosco, con tutto ciò che il bosco è e rappresenta, produce… La difficoltà di vivere il bosco e vivere la vita (“Affittasi”) Quel dolore va detto, quell’amore, per il bosco, va cantato: quella di Franci è la dimensione della poesia, che non sta solo nelle parole o in un fare, sta primariamente nel sentire e nell’essere. Perchè, sicuramente, il luogo per eccellenza del cuore, prima di diventare giardino segreto -addomesticato dunque, in parte piegato a un’estetica e a strutture di derivazione culturale, in parte forse purificato dagli aspetti più oscuramente selvaggi- era il BOSCO (nel giardino diventa troppo importante essere educati e avere il vestito giusto). Esiste un pericolo, quello di perdersi fino a divenire prigionieri del bosco: non è cosa per umani. Franci lo sa e STELLA PIUMATA è sempre lì ad attenderla.

“Stella piumata” di Francesca Damiano, opera tratta dalla mostra
LUISA LITTARRU / L’interno del fuori
Come il bozzolo di filo di seta che il baco avvolge intorno a sè, come le ragnatele architetture volanti, come i nidi degli uccelli tessitori simili a cuori trombe o bisacce e i sapienti termitai, per non parlare dell’invenzione delle conchiglie o del ricco catalogo dei gusci, di semi di frutti di piccoli animali, e i rami di corallo e le stalattiti infinitamente pazienti…: il fare di Lu appartiene a questo tipo di fare, affonda nell’organico e nei regni della natura da cui assume processi come suggestioni, ma selezionando secondo i codici di una grazia ora esile e rarefatta -direi fatata- ora più intricata, incline a esalazioni inaspettatamente penetranti, talora appena intinta nel veleno… L’Immaginario viene gentilmente ricondotto nell’ambito dei regni naturali (ai quali, probabilmente, davvero appartiene) con essi mescolandosi e scambiando modelli e strategie (ma non è che anche i frattali hanno qualcosa da dire?) e i regni naturali s’immergono nell’Immaginario rinnovando la loro perduta magia. Grazie a materiali considerati di scarto prelevati dalla dimensione contingente, materiali apparentemente privi di qualsiasi evidente attrattiva o di una vocazione estetica, materiali spesso anche fragili e tendenzialmente effimeri come tovaglioli di carta intinti nel tè, capelli, radici, garza, bustine di tè, cartone ondulato, puntine della graffatrice usata, piccoli pani impastati e infornati ad hoc, calamite, occhielli d’ottone, il cuoio di una vecchia scarpa: solo l’elenco irradia una poesia tanto involontaria quanto sorgiva… Ma, in più, la delicatezza impalpabile con cui Lu li elabora e li trasforma, degna di un’alta tradizione artigiana, ingenera il sospetto che questi materiali, così poveri e marginali su questo piano di realtà, rifulgano,se osservati su un piano ulteriore, della luce e dei riflessi di metalli e cristalli preziosi, siano merletti sete e broccati ma di un regno in cui la materia è più trasfigurata. A Lu non piace la parola arte riferita ai suoi lavori -figuriamoci poi la parola artista riferita a lei- e non può che essere così visto la natura del suo fare -è un artista un baco?-, sarebbe come dare del tipo bizzarro e pretenzioso a chi non fa altro che fare quello che deve, esattamente come lo deve fare, perchè non può fare diversamente: è il suo unico e possibile modo di vivere e quel fare è inevitabile, una necessità biologica e ontologica insieme, non culturale, non davvero una scelta frutto della volontà.
Mi sarebbe piaciuto trovare per Lu un nome che potesse sostituire ad artista per dire di sè come creatrice di quelli che lei chiama accessori -perchè, meraviglia delle meraviglie i suoi lavori sono concepiti per essere adagiati sul corpo (o per incantarlo?)- e da quando questo pensiero mi ha attraversato ho vagabondato per un po’ tra i significati del termine greco kosmos (in cosmesi ma anche cosmologia: bellezza appartenente alla natura del mondo): cosmista sembrava un termine promettente ma, forse, per un baco da seta, ancora pretenzioso. Dopodiché ho realizzato che bastava togliere una emme per trovarsi pronta una parola bellissima e molto adatta: Lu è una cosista, e molto esperta.

“Collana di pane” di Luisa Littarru, opera tratta dalla mostra