Secondo appuntamento del ciclo “Per Non Morire /Esperienza”, questa volta ospitati dal Piccolo Teatro Libero di San Polino, Brescia.
In mostra le opere di Monica Carrera, Matteo Cassiaghi, Francesca Damiano e Luisa Littarru.
TESTI CRITICI di Alessandra De Medici:
“PER NON MORIRE” – l’episodio originario – era e nasceva come un atto di fede -nella vita, nell’essere e nell’esserci, nel sentire, nel fare, insomma nel Senso…- pronunciato in un momento in cui la fede si rivelava davvero l’unica e ultima risorsa, cosa che non la rendeva certo più facilmente attingibile, ma, inequivocabilmente, l’atto di fede acquisiva proprio per questo i tratti di un atto eroico e di sfida all’opacità e al caos incombenti. Era il momento di giocarsi tutto, una volta per sempre, quali che fossero le proprie carte, mettendo a rischio ogni bene prezioso, per poter rimanere in gioco nell’unico modo onesto, ovvero creando il proprio di gioco. La saletta del Carmine si era così animata della ricchezza e varietà di “ogni bene prezioso” e ciascuno -Lu Monica Franci e Matteo – si era manifestato incarnando una ben precisa qualità che io avevo ricondotto alle componenti del simbolo del Tao. In PER NON MORIRE -l’episodio originario- ciascuno ha spaziato nel proprio spazio conosciuto.
Da quell’episodio arriva l’invito da parte del Piccolo Teatro Libero: la stessa mostra? una mostra completamente diversa? altro ancora? Del tempo per far maturare le cose fino ad approdare a “PER NON MORIRE -esperienza-. Non a caso uso approdare perché l’immagine che si coagula nella mia mente vede i lavori del primo episodio come delle boe alle quali attraccare il nuovo lavoro -l’ambientazione acquatica testimonia la fluidità e la dimensione archetipica di questa esperienza-. E lo spazio teatrale – il palcoscenico- come il contenitore sicuro di questa fluidità ma soprattutto come una lente d’ingrandimento che svela e mostra qualcosa di celato e facendolo affiorare lo strappa agli abissi, disintegrandone le incrostazioni con l’intensità di quel qui e ora che solo il teatro respira e su cui si basa il suo potere catartico. Io credo che in questi nuovi lavori ciascuno abbia ritrovato qualcosa di sè che aveva davvero dimenticato o addirittura abbia incontrato qualcosa di totalmente ignorato e che l’esperienza sia stata quella dello scavo o meglio dell’immersione nelle proprie profondità. A recuperare qualcosa che potrebbe essere tanto l’ostacolo quanto il dono – forse il dono nascosto nell’ostacolo, ma anche l’ostacolo contenuto nel dono- quel qualcosa da dover conoscere assolutamente di sè “per non morire” e non correre mai più, eventualmente, questo rischio. Ecco perché ci troviamo di fronte a una mostra dominata dalla sintesi, in cui la concentrazione è essenziale.
Ma rispetto alle collocazioni originarie -nel simbolo del Tao- in che direzione, se spostamento c’è stato, Franci Matteo Monica e Lu si sono mossi? Cosa è mutato e come? Vediamoli uno per uno.
MONICA CARRERA / L’esterno del fuori
MONICA era l’esterno del DENTRO,il punto bianco nella grande onda nera, l’esperienza la chiama ad assumersi la responsabilità di presiedere l’esterno del FUORI, la grande onda bianca, il culmine dell’esteriorizzazione.
Collocazione di massima esposizione e fase di raccolta di un grande potere spendibile nell’affermazione di sè: Monica cavalca l’onda riappropriandosi della componente “progettuale” del fare arte, con la sua fiducia nella capacità umana di risolvere i problemi e migliorare le condizioni di vita dell’essere umano ,inventando uno “Strumento di Bellezza Interiore”, struttura di legnetti incastellati da posizionare sulla testa agganciando gli appositi lacci di cuoio intorno alle orecchie – come ben illustra la splendida fotografia “Ritratto, istruzioni per l’uso”-, esempio di una tecnologia umanistica attenta all’ecologia della mente ma non ignara delle ragioni del cuore, sicuramente biocompatibile ed ecosostenibile, ma anche “Apertura-fare di necessità virtù” due legnetti spinosi lunghi lunghi come antenne parzialmente uniti da una cerniera rossa semiaperta e da fettucce azzurre man mano sempre più larghe, va nella medesima direzione, uno strumento materiale e insieme concettuale, primitivo ed erudito destinato all’educazione e all’evoluzione della specie, alla sua maturazione etica. Lavori in cui sentori classici si mescolano a umori più vicini a Dada e Surrealismo creando un connubio di fantasticheria luminosa, di razionalità tanto rigorosa quanto strampalata, che punta dritta alla visione, all’Utopia, alle rarefatte sfere del mondo delle idee con il sorriso sulle labbra. Dalla mostra precedente Monica aveva portato “Cosa rimane?”: bene, i nuovi lavori sembrano rispondere a questa domanda con un piglio particolarmente vivace e propositivo, pionieristico e inventivo.

“Strumento di bellezza interiore” di Monica Carrera, opera tratta dalla mostra
MATTEO CASSIAGHI / L’esterno del dentro
Dopo aver incarnato l’esterno del FUORI, la grande onda bianca, MATTEO manifesta l’esigenza di recuperare una dimensione più interiore: assumerà su di sé l’esterno del Dentro, il punto bianco nella grande onda nera, evocando un abito creato nel crogiuolo del rosso, simbolo di femminilità consapevole e trionfante .Per Matteo il rosso è il rosso della linea di sangue,conduttrice di talenti e di potere, di un sapere che può essere trasmesso solo riversandolo, in affetti e legami, e la cui unica fonte è -un altro caso- l’esperienza, della vita che nasce e cresce e della morte che trasformando consuma e riduce fino a distruggere, del flusso e del riflusso, nel sangue, dell’inarrestabile marea delle emozioni. Un abito più complesso e stratificato, nei pesi dei tessuti – tulle chiffon e pizzo leggerissimi e all’opposto la pesantezza della cintura-gorgiera e del corpetto -, nelle sfumature di rosso -arterioso e venoso a ogni stadio -, negli interventi sartoriali riccamente diversificati che rimandano a competenze e abilità faticosamente acquisite e sacralmente trasmesse, quasi un parallelo di elevati e sfaccettati livelli di consapevolezza, rispetto ai precedenti e anche ad “Alta Cucitura”, l’abito bianco che Matteo porta dalla prima mostra di cui il rosso è il gemello diverso. Abiti di stato, i precedenti, abito di un divenire “Di madre in figlio – Buon sangue non mente”, fluido e periglioso, l’abito da vestire nel corso di una prova iniziatica, segretamente disposto ad essere lacerato e strappato, a sacrificarsi dunque, pur di essere introiettato.

“Alta cucitura” e “Buon sangue non mente” di Matteo Cassiaghi, opere tratte dalla mostra
FRANCESCA DAMIANO / L’interno del fuori
FRANCI, in precedenza interno del DENTRO, la grande onda scura, esce dalla dimensione interiore del bosco per aggirarsi, con il suo cappotto -quasi da campagna militare, un po’ corazza un pò orsacchiotto, amato come si amano i compagni d’armi, usato, strappato, cucito e ricucito, impregnato di ogni insegnamento o lezione la vita le abbia impartito e lei Franci abbia accolto, e dunque, in qualche modo, un condensato di sé, investito, lui, di un potere apotropaico- nei luoghi aviti delle radici familiari materne, su in montagna in alta ValCamonica: dentro le vecchie case, con i loro arredi elementari e saturi di vissuto e le architetture nude ma nette ed esemplari, fuori nei prati e sui pendii stillanti di verde e disseminati di pietre come quelle delle case così che le case sembrano pietre e viceversa, dove le acque scorrono sotto ponti di legno. L’interno del FUORI, luoghi che appartengono al mondo esterno – è possibile fotografarli- ma che sono carichi di significati interiori che li trasfigurano. “E’ il cappotto che mi porta” è il nuovo lavoro di Franci ma lavoro di lontana origine e di lenta elaborazione, visto le date 2001-2011. Solo uscendo dal bosco questo lavoro poteva vedere la luce, solo la saggezza e la comprensione accumulate stando nel bosco, a contatto con sè, potevano guidare Franci in questo percorso di ricapitolazione e recupero del proprio retaggio ancestrale: le eredità ci arricchiscono è vero, materialmente e psichicamente, ma a volte pesano e incatenano, accettando l’eredità accettiamo anche di farci carico di quel che di irrisolto giace nella storia familiare.”Bastoncino magico” è il lavoro che Franci ha portato fuori dal bosco a fare da boa d’attracco al nuovo, e non può essere un caso.

“È il cappotto che mi porta” e “Bastoncino magico” di Francesca Damiano, opere tratte dalla mostra
LUISA LITTARRU / L’interno del dentro
LU era “l’interno del FUORI”, la goccia nera nella grande onda bianca. Ora l’esperienza esige da lei il massimo dell’interiorizzazione, e LU diventa l’interno del Dentro, la grande onda nera. Nelle sue profondità LU si imbatte in una presenza femminile aliena e fantastica, eppure intima e forse familiare, arcaica ma solo in relazione a tempi futuri. Il nuovo lavoro, i guanti/mani di cellulosa e colla, sottili e stropicciati come petali appassiti o guaine vegetali, ma anche così simili a pelle strappata o di muta da suscitare qualche brivido, sono il fuoco centrale di una visionaria parure presumibilmente nuziale, con anello di radici, collana di pane e orecchini da bustine di te, rigorosamente scoordinati, a ricomporre per stratificazione, in un accumulo di indizi sempre più spiazzanti, un’identità misteriosa, fisionomia di un femminile atipico. Ogni oggetto di questo corredo da principessa siderale ha una storia e racconta a sua volta una storia. Riemersi da un tesoro affondato o ritrovamenti archeologici da una tomba su altri pianeti, ne rintracceremmo forse la descrizione nei canti all’interno di cicli leggendari o in certe fiabe, depositi di memorie.

“Guanti di cellulosa” di Luisa Littarru, opera tratta dalla mostra